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Carles Duarte

Occhi color cenere

Più vado avanti e più mi riesce difficile discernere nella memoria se i miei ricordi sono avvenuti effettivamente o se sono sogni ispirati a fatti della mia vista.

Fra i miei ricordi ve n'è uno che mi risulta singolarmente enigmatico perché ne conservo una percezione molto reale e precisa e invece possiede una naturalezza del tutto inquietante.

Quel che vi racconterò dev'esser successo circa otto anni fa. Allora lavoravo parecchio lontano da casa mia e ogni giorno mi recavo all'ufficio con la metro. Una stazione è proprio vicino a casa mia ed è di una linea che mi lasciava proprio accanto alla ditta dove andavo a far da contabile, la mia professione.
Il tragitto durava in genere una mezz'ora, giusto il tempo per una rapida lettura del giornale che compravo al chiosco che è davanti alla stazione.
In quelle ore mattutine –abitualmente prendevo la metro che pasava per la mia stazione alle sei e mezzo– c'era dentro ai vagoni un ambiente assai sonnacchioso: sempre gli stessi passeggeri: ora uno che sbadiglia, ora un altro che dorme, e quello che è sveglio s'intrattiene gettando sguardi sugli altri passeggeri o al giornale o leggendo qualche pagina in più del romanzo che quel lettore addormentato si trascina infilato nella borsa già da qualche settimana.
Quel giorno avevo preso la metro mezz'ora prima. Mi ero svegliato prima dell'ora e, una volta desto, non ero più riuscito a riprender sonno. Così, per non svegliar mia moglie, decisi di vertirmi, far colazione e andarmene al lavoro. Avrei appofittato di quel po' di tempo per andar avanti con il lavoro arretrato che avevo.
Gli ocupanti del vagone erano, dunque, altri da quelli con i quali ero solito condividere il mio tragitto.

Mi accorsi che, com'era naturale, avevano tutti la faccia di chi ha più sonno. Una volta che diedi una rapida occhiata ai passeggeri –ce n'erano molti di meno che nella metro che prendevo solitamente– e ai sedili che restavano vuoti, decisi di sedermi in uno che stava alla fine del vagone. Aprii il quotidiano e, senza fretta, cominciai a leggerlo.

Quando ne avevo già ripassate alcune pagine e m'ero fermato a leggere una notizia sulle nuove acquisizioni nello studio dell'origine dell'universo, provai la netta sensazione che qualcuno mi stesse osservando fissamente. Feci in modo di non far caso a quella scomoda percezione, dato però che non accennava a cessare, approfittai dell'azione di girar la pagina del giornale per levar lo sguardo e così confermare se realmente ci fosse qualcuno che mi osservava.

Era una donna giovane, di circa trent'anni. Fino a quel momento non mi ero accorto della sua presenza, come sa fosse apparsa all'improvviso. Mi sorprese che, quando la guardai, ella non schivò i miei occhi, ma continuò a guardami, con una forza strana. Sforzandomi per vincere l'attrazione che mi causavano i suoi occhi, intentai più volte, senza riuscirci, di riprendere la lettura del giornale. Ma ogni momento alzavo il capo per andar a ricercare la bellezza di quegli occhi, d'un triste e misterioso e sensuale color della cenere.

Tre stazioni prima d'arrivare alla fine del mio tragitto, quella donna si alzò dal sedile e scese dalla metro. Ne approfittai per osservarla attentamente: era una donna di media altezza, con i capelli castani, una pelle piuttosto bianca e delle mani fini, molto fini, con le dita magre e lunghe… e quegli occhi color della cenere.
Quel giorno non combinai nulla di buono. Non potevo evitare d'aver sempre davanti la penombra intuita di quegli occhi bellissimi.

Finanche di notte. Quell'immagine mi aveva completamente sconvolto. Mia moglie se ne accorse; però, malgrado le sue domande, non osai raccontarle quel che mi era capitato.

L'indomani mattina andai molto presto alla stazione della metro e attesi impa-ziente che arrivasse la metro che avevo preso il giorno prima. Cercai lo stesso vagone e vi salii. Sbirciai i passeggeri del vagone e comprovai che quella donna non c'era. La cosa mi preoccupò, però mi tranquillizzai pensando che forse sarebbe salita più avanti.

E, effettivamente, quando il treno si fermò alla satazione seguente, sali la donna dagli occhi color della cenere. Ben presto s'accorse della mia presenza, ci guardammo e si sedette davanti a me.

Mi pareva ancora più bella, d'una bellezza assolutamente naturale, quasi selvaggia. Ci bevevamo con gli occhi con un'avidità e un desiderio che non ricordavo di aver mai sentito con quella stessa intensità. Sono sicuro che gli altri passeggeri dovettero accorgersi perfettamente di quella situazione e quando ci penso ne provo vergogna. Di tanto in tanto mi rifugiavo per un breve istante dietro ai fogli del giornale. Ma soltanto per un breve istante perché mi costava tanto smettere di guardarla quanto guardarla costantemente. Quando si alzò il passeggero che sedeva accanto al sedile occupato dalla donna, ebbi la tentazione di andarmici a sedere io, però alla fine non mi decisi. E credo che non lo feci per non smettere di guardare quegli occhi che m'avevano sedotto tanto follemente.
Senza rifletterci, quando vidi che s'alzava per andarsene, la seguii, benché sapessi perfettamente che mi mancavano ancora tre stazioni per arrivare alla fine del mio tragitto. Le andai dietro fino all'uscita della metro. Allora le sfiorai lievemente il braccio e lei si voltò. Era evidente che aveva notato che la seguivo. Senza mai chiederle qual fosse il suo nome, la raccontai che avevo osservato come mi guardava fissamente. Mi rispose dicendo che anch'io lo avevo fatto. Le dissi che era ben chiaro che ci piacevamo e le proposi di vederci. Dopo aver superato una lieve resistenza, senza convizione da parte sua, più –così mi parve– per paura d'intraprendere un sentiero sconosciuto, che per mancanza d'un vero desiderio di addentrarcisi, concordammo di vederci quella stessa sera a casa sua. Ricordo che mi dettò il suo indirizzo che io scrissi meccanicamente sul retro d'uno dei miei biglietti da visita.

Una forte agitazione mi rose per tutto il giorno. Quando fu l'ora, per lasciare l'ufficio trovai la scusa che dovevo svolgere alcune faccende e m'incamminai precipitosamente verso l'indirizzo che avevo annotato sul biglietto. Quando ero ormai molto vicino, mi accorsi di colpo che era esattamente lo stesso indrizzo dove aveva vissuto mia moglie quando c'eravamo conosciuti. Si trattava perfino dello stesso appartamento. Pensai che a volte il caso produce delle coincidenze davvero sconcertanti.

Suonai alla porta e quando mi aprirono, restai atterrito, di pietra. Sembrava… mia moglie. Però non era propio lei. La fissai per un istante. Nel suo viso c'era… gli ochhi… quegli occhi color della cenere. Senza riuscire a proferire nemmeno una parola fuggii di corsa giù per le scale. E non mi fermai sino alla stazione della metro.

Aprendo la porta di casa, comprovai che mi moglie non c'era. Quando giunse, la osservai con un'attenzione inusitata che la intrigò. Mi diede però un bacio e, come se non fosse accaduto nulla di speciale, se ne andò in camera per cambiarsi d'abito.

Non mi riusci di dimenticarmi della donna dagli occhi color della cenere. Perfino ancora oggi ogni tanto al mattino mi alzo prima e prendo la metro como sa dovessi andare al mio vecchio posto di lavoro con la speranza di ritrovare quegli occhi, di perdemici dentro ancora per un po'. Mai più, però, non l'ho rivista.

(De Occhi color cenere, dins Hebenon. Rivista internazionale di letteratura [Torí], 2010. © Trad. Pietro U. Dini)